L’Afghanistan Non Ci Sarà, Noi Ci Saremo Per L’Afghanistan?

L’Afghanistan non ci sarà. La notizia era già nell’aria ma negli ultimi giorni è diventata ufficiale con l’entrata dei talebani a Kabul. Gli atleti afghani non prenderanno parte ai Giochi Paralimpici di Tokyo2020. E ora? Cosa ne sarà di loro? L’Afghanistan non ci sarà, noi ci saremo per l’Afghanistan?

In effetti è come se fino a qualche giorno fa ci fossimo dimenticati dell’Afghanistan, in parte perché qualcosa lì sembrava essere cambiato. O così preferivamo pensare. In realtà la preoccupazione cresceva di giorno in giorno, finché i talebani sono riapparsi di fronte agli obiettivi delle nostre tv. Ci eravamo davvero dimenticati dell’Afghanistan, i progressi delle donne sembravano finalmente raggiungere livelli minimi di libertà ed emancipazione, non percepivamo quasi le grida d’aiuto di chi ancora subiva i soprusi degli estremisti, ci sembravano casi isolati in un Paese in cui tutto sommato i diritti si facevano largo con il passare del tempo.

Ma accanto a tante donne che in Afghanistan sono riuscite ad andare a scuola, ad avere un lavoro, a sfilarsi parzialmente dall’oppressione, c’era anche il dramma dei profughi che non è mai cessato.
E c’erano gesti impuniti che i conservatori non facevano mai attendere a scapito di chi osava troppo. Ai Giochi Olimpici nella squadra dei rifugiati c’era una giovane ragazza afghana sulla sua bicicletta, arrivata ultima e felicissima nella  cronometro. Si chiama Masomah Ali Zada, classe 1996, è di etnia Hazara. Vive in Francia, oltre all’università ha potuto continuare ad allenarsi e grazie ad una borsa di studio per atleti rifugiati del Cio è arrivata a Tokyo2020.
La sua famiglia ha tentato di andare in esilio in Iran, poi è tornata a Kabul fino al trasferimento in Francia. Durante gli allenamenti in bici per la nazionale di ciclismo femminile i conservatori avevano preso di mira Masomah, erano arrivati a lanciarle uova e frutta, l’avevano persino investita. Nel 2016 lei diventa protagonista del documentario “Les Petites Reines de Kaboul”, in cui viene raccontato al mondo tutto ciò che comporta essere una donna e una ciclista in Afghanistan. Il passo successivo è il trasferimento.

Ma cosa ne sarà delle donne rimaste in Afghanistan? Molte di loro in queste ore così drammatiche affidano il proprio dolore al Web, sotto forma di racconti agghiaccianti. Alcune nascondono i diplomi, le prove dei traguardi raggiunti, altre dopo anni di lotta contro l’estremismo indossano a malincuore un velo e si rassegnano alla loro sorte.
La bandiera dell’Afghanistan non sventolerà a Tokyo. E noi ci chiediamo cosa ne sarà di tutti gli atleti, donne e uomini, e di tutte le persone che in questi anni avevano assaporato sprazzi di libertà e avevano costruito una società più vivibile.
Lo sport in questa operazione aveva rappresentato un tassello fondamentale.

calciatrici afghanistan popal
Pensiamo alle calciatrici della nazionale femminile come Khalida Popal, che oggi vive in Danimarca e racconta di aver ricevuto una serie di chiamate preoccupanti, richieste di soccorso a cui ha semplicemente risposto: scappate, cancellate i vostri profili dai social e tutte le foto, nascondetevi. Un consiglio che suona come una resa e che non avrebbe mai voluto dare, dopo anni di lavoro per rendere visibili le istanze di tante altre donne del suo Paese. Anche dal calcio femminile, dal suo abbigliamento e dai suoi piedi passava l’empowerment delle donne afghane.
Pensiamo a Zakia Khudadadi, che sarebbe entrata nella storia come prima atleta donna afghana ai Giochi Paralimpici, e a Hossain Rasouli, che con lei sarebbe volato a Tokyo. “Non lasciate che i talebani mi tolgano i diritti fondamentali. Ho ancora fiducia, vi prego: aiutatemi a partecipare. È il mio sogno, ho lottato 5 anni per arrivare dove sono”, implora la Khudadadi, lottatrice di taekwondo.
Vent’anni fa una donna non avrebbe mai potuto competere in una gara. Non avrebbe mai potuto studiare e non avrebbe mai potuto scegliere di fare moltissime altre cose. Oggi la prospettiva è di un ritorno a quel passato tanto crudele, un passato che molte donne afghane sono persino troppo giovani per ricordare e che sicuramente suona ancora più apocalittico.
Pensiamo a tutti gli atleti che non saranno a Tokyo e anche a tutte le bambine come quelle che partecipavano ai progetti di Skateistan e che attraverso lo skateboarding imparavano a vivere l’uguaglianza tra i generi e a non restare in silenzio in caso di abusi e tentativi di sottomissione. Il cortometraggio a loro ispirato “Learning to skateboard in a war zone (if you’re a girl)” ha vinto un Oscar nel 2020.

 

E ora? Cosa ne sarà di loro? Cosa ne sarà di tutte queste donne senza più voce? L’Afghanistan non ci sarà, noi ci saremo per l’Afghanistan?