Paolo Pizzo: “La Vita Come In Pedana, Devi Imparare A Rialzarti Dalla Sconfitta”

“Nella vita si cade diverse volte, ma la cosa più importante è la forza con la quale ogni volta devi rialzarti”. Sorriso solare come la sua Sicilia, Paolo Pizzo – due volte campione del Mondo di Spada, 2011 e 2017, e medaglia d’argento olimpica a squadre di Rio 2016 – lo incontriamo in palestra, grondante di sudore dopo un allenamento durissimo.

“Quelli che preferisco di più, anche se alla fine sono sfinito. Perché mi fanno rendere conto quanto sia fortunato a poter stare ancora in pedana, a 35 anni. Se penso che fino a maggio non riuscivo nemmeno a piegare il braccio destro…”.

 

“Nella vita si cade diverse volte, ma la cosa più importante è la forza con la quale ogni volta devi rialzarti”. Sorriso solare come la sua Sicilia, Paolo Pizzo – due volte campione del Mondo di Spada, 2011 e 2017, e medaglia d’argento olimpica a squadre di Rio 2016 – lo incontriamo in palestra, grondante di sudore dopo un allenamento durissimo. “Quelli che preferisco di più, anche se alla fine sono sfinito. Perché mi fanno rendere conto quanto sia fortunato a poter stare ancora in pedana, a 35 anni. Se penso che fino a maggio non riuscivo nemmeno a piegare il braccio destro…”.

 

A marzo hai subito un intervento chirurgico.

“Sì per la ricostruzione dei legamenti del gomito. Temevo di non poter tirare più. La riabilitazione è stata lenta e complessa. Per fortuna a giugno è nata Elena e la vita è radicalmente cambiata”.

 

La piccola sembra avere un futuro certo da atleta, visto che la mamma Lavinia Bonessio è stata campionessa di Pentathlon moderno.

“La cosa più importante è che cresca in salute. Poi gli esempi non le mancheranno in famiglia. Per ora ci ha tolto il sonno notturno, ma siamo felici così. Tenerla fra le braccia mi dà un’energia incredibile. Elena mi ha dato le motivazioni per ripartire per l’ennesima volta e provare a tornare ai vertici mondiali”.

 

Prima dell’infortunio eri primo nel ranking mondiale…

“Ora sono scivolato parecchio indietro. A ogni prova di Coppa del Mondo dovrò superare delle fasi eliminatorie sempre più dure, ma la risalita non mi fa paura. Ho avuto sempre il supporto dell’Aeronautica Militare, fondamentale nella mia carriera. Ci sono riuscito a rialzarmi nel 2012 quando fui costretto ad operarmi due volte al polso. Anche allora tutti mi davano per finito e poi sono salito più volte su podi internazionali. Tutta una questione di testa”.

 

A proposito di testa, a 13 anni la prova più dura: il tumore al cervello, il delicato intervento, la rinascita.

“Lì si sono forgiate le mie capacità di reazione ad ogni avversità. Grazie a una famiglia unita sono riuscito a superare quel periodo durissimo, fatto di crisi epilettiche provocate dalla massa tumorale che spingeva nella scatola cranica. All’inizio cercavo di tener nascoste a mamma e papà quelle crisi, poi per fortuna loro capirono e così mi salvai. Oggi che sono testimonial Airc giro per le scuole a raccontare la mia esperienza sottolineando ai ragazzi quanto sia importante la prevenzione, dunque parlare coi genitori di qualsiasi sintomo, senza nascondere nulla”.

 

Da questa attività di testimonial ai campi estivi di scherma, il suo rapporto coi giovanissimi è intenso.

“Sì. E per me è una carica di entusiasmo eccezionale. Le loro domande spesso sono dirette e ti mettono quasi in difficoltà. Ma ti fanno capire quanto maturino in fretta e come abbiano bisogno di risposte educative adeguate. Io mi sforzo, ma non so se sono all’altezza”.

 

Non ti sei posto mai da campione, ma come uno di loro con qualche anno in più.

“Può darsi. Di sicuro la mia carriera sportiva, di cui sono molto orgoglioso, non è stata costruita col talento. Anzi se posso essere sincero non mi piacciono molto quelli che sono solo talento. I miei risultati sono arrivati grazie a un lavoro durissimo in palestra, portato avanti con disciplina grazie a un Maestro, il russo Oleg Pouzanov, che mi ha insegnato a crescere come uomo prima che come atleta”.

 

Non è un caso che dopo ogni vittoria sollevi lo sguardo al cielo.

“Certo. Oleg purtroppo se n’è andato tre anni fa. Fra me e lui è rimasto un legame spirituale fortissimo. E poi devo ringraziare gli altri maestri che mi hanno consentito di restare a livelli altissimi: Andrea e Stefano Giommoni, Enrico Di Ciolo. E poi in Nazionale Dario Chiadò e il c.t. Sandro Cuomo”.

 

Paolo Pizzo la tua storia è quella di un ragazzo normale diventato campione con una forza di volontà incredibile.

“Non so se sono un campione. Di sicuro mi piace dare il massimo in tutto quello che faccio. Ecco, chi fa sport oggi deve superare grandi difficoltà per via della mancanza di strutture, della stessa scuola che spesso mette in secondo piano l’attività agonistica o anche quella più semplicemente ricreativa. A questi ragazzi, ai loro allenatori, agli educatori, posso dire che l’importante è dare sempre il massimo in ogni cosa che facciamo. Che poi serva a giocare una finale provinciale o una mondiale, cambia relativamente. Dobbiamo fare il nostro al meglio e a quel punto sapremo anche accettare la sconfitta. Se non avessi capito il valore della sconfitta non avrei vinto tanto”.

 

Ci hai messo un po’ con la spada, ma poi hai capito anche l’importanza di fare squadra.

“Vero. Da ragazzino giocavo anche a pallavolo e calcio, ma poi scelsi la scherma perché era uno sport individuale. E in pedana il concetto di squadra è completamente diverso, non è una somma di individualità. Nel 2015, quando dovevamo affrontare le prove per le qualificazioni olimpiche, eravamo quattro componenti che quasi ci guardavamo in cagnesco. Poi è arrivato Gigi Mazzone, già campione di scherma e neuropsichiatra infantile: lui è diventato il motivatore in Nazionale. Ci ha aperto la mente, abbiamo imparato il valore della condivisione, dell’aiutare l’altro: ha ridicolizzato i nostri egoismi”.

 

Fino all’argento di Rio de Janeiro.

“E lì Gigi ha avuto l’ultimo colpo di genio. Io, Enrico Garozzo, Marco Fichera e Andrea Santarelli eravamo giù perché la prova individuale era andata a tutti male. Il giorno prima della gara a squadre stavamo rinchiusi nelle nostre camere a rimuginare. Mazzone aveva portato alle Olimpiadi un gruppo di ragazzi autistici – esperienza incredibile per loro, che hanno viaggiato in Brasile senza genitori, solo con degli assistenti volontari – e ci ha ‘obbligato’ a pranzare a Casa Italia con questi giovani. Abbiamo condiviso il pasto a loro, che ci facevano mille domande e ci mettevano di fronte alla realtà. Ecco una lezione di vita: guardarsi sempre indietro, aiutare gli altri e non pensare solo a se stessi. Quella mattinata ci ha ridato leggerezza mentale e nuova carica. Su quel podio siamo saliti anche grazie a loro, che erano a festeggiare insieme a noi”.

 

Prossima scalata?

“Arrivare a Tokio 2020. Disputare la mia terza olimpiade a 37 anni. Senza proclami di vittoria, ma per dare il massimo. E assaporare il gusto della competizione e di una manifestazione che continua ad affascinarmi come quando da bambino la seguivo in televisione”.

Maurizio Nicita