Herat: Quando Fare Squadra Ti Salva La Vita

Grazie alla rete di solidarietà italiana, di cui ha fatto parte anche l’ex c.t. di pallavolo Mauro Berruto, l’Herat Football Club ora è in Italia

Questo non è un romanzo, ma un dramma. Un dramma, quello dell’Afghanistan, che ha anche storie a lieto fine, nel quale lo sport svolge un ruolo fondamentale. Già perché se un gruppo di ragazze 7 anni fa a Herat non si fossero messe in testa, tutte insieme, di trovare riscatto ed emancipazione attorno a un pallone, oggi la loro vita sarebbe impossibile sotto il nuovo regime talebano. Sempre che non gliel’avessero tolta, la vita. Oggi quelle ragazze insieme a un gruppo di cicliste e altri afghani, una sessantina, sono in salvo nel nostro Paese. E possono pensare a un futuro, perché no, anche attraverso lo sport.

 

Ma riavvolgiamo il nastro è partiamo da un documentario del 2017 di Stefano Librati che porta a conoscenza in Occidente dell’esperienza dell’Herat Football Club. Attorno a quella realtà si crea una rete di solidarietà in Italia con la Cospe Onlus e Road to Equality. Quella stessa rete, nel momento del dramma, si è attivata, per convincere le ragazze a scappare da una morte quasi sicura. In poche ore è stato elaborato un incredibile piano d’azione che ci racconta Mauro Berruto, ex c.t. di pallavolo ma soprattutto alleducatore cresciuto nei nostri oratori, e sempre impegnato in prima linea sul fronte del volontariato: “Ci siamo ritrovati insieme un gruppo di persone con gli stessi obiettivi ma che non ci conosciamo. Abbiamo fatto squadra ed è partita una corsa per convincere le ragazze a partire da Herat per raggiungere Kabul e poi triangolare le informazioni con il comando italiano in Afghanistan. Ho vissuto una settimana incredibile, ancora non riesco a rendermi conto, per 40 ore di fila davanti al computer e messaggiando continuamente al telefonino per dare le giuste coordinate alle ragazze che accendevano a turno i loro cellulari per non scaricare le batterie. Una informazione imprecisa, un’errata localizzazione, poteva costare loro la vita e la tensione è stata altissima. Noi dall’Italia a far gruppo, ma loro eccezionali a muoversi lì in condizioni disperate. Perché attorno all’aeroporto la situazione era drammatica, già prima dell’attentato, con migliaia e migliaia di persone accalcate nella speranza di salire su un aereo e scappare. Abbey gate può diventare porta del paradiso o inferno di morte. Agghiacciante. C’è un corso d’acqua maleodorante che bisogna guadare entrandoci dentro fino al collo e soprattutto risalendo la china sull’altra riva. Penso ora a una delle ragazze che non è riuscita a prendere il volo: incinta di 8 mesi è entrata in acqua ma nella calca non è riuscita a risalire sull’altra sponda. I contatti fra il gruppo delle ragazze, cui si sono uniti diversi familiari e altre cicliste, erano complessi. Andavano inseriti negli elenchi in mano al nostro esercito. Dal generale Portolano, al colonnello Trubiani, al capitano Dal Basso, tutti i nostri militari si sono battuti per salvare quante più vite possibili, mantenendo i nervi saldi in situazioni decisamente stressanti. Ma non era fattibile imbarcare tutti. Per cui quando sulla sponda della salvezza di Abbey gate arrivava un mezzo militare per prelevare civili ecco che si scatenava la ressa. Le nostre ragazze, d’intesa coi militari, avevano disegnato una H sulla propria mano per essere riconoscibili. H, come Herat. Le cicliste come segnale dovevano mostrare una scarpa. E così sono state riconosciute e imbarcate. Il loro modo di fare sport, di essere squadra le ha salvate”.

Mauro Berruto non nasconde le proprie forti emozioni ma guarda avanti: “Bisogna creare dei corridoi umanitari. Tanta gente è alla disperata ricerca della salvezza. E il mio pensiero va a un padre coi suoi 5 figli: eravamo riusciti a metterli nella lista dell’ultimo C130 italiano partito da Kabul. Ero io a mantenere il contatto telefonico con lui: nella calca ha perso la moglie e altri due figli che non sappiamo dove siano finiti. Il suo nome non lo rivelo per una questione di sicurezza. So solo che aveva superato il corso d’acqua ed era entrato in contatto con un militare italiano che però non aveva l’elenco e dunque non poteva decidere al momento. Quando sono riuscito a parlare col colonnello i mezzi erano già rientrati. Bisognava chiudere gli imbarchi e ripartire in fretta. Su suggerimento dei militari gli ho consigliato di tornare a casa perché la situazione diventava pericolosa – di lì a poche ore l’attentato con centinaia di morti -, mi ha risposto secco: “Non ho più una casa e se torno indietro sgozzano me e i miei figli. Resto qui sperando di partire”. Poi ho saputo che ha riportato qualche ferita leggera nell’esplosione. È stato curato coi figli dalle truppe inglesi. Ora continua a vagare intorno all’aeroporto. Umanamente è difficile da accettare tutto questo”.

 

Maurizio Nicita