Di Mattia Zucchiatti
Un oro olimpico dei 200 metri, tre titoli europei, un primato mondiale dal 1979 al 1996 con il tempo di 19″72, che costituisce ancora oggi il record europeo. Ma anche quattro lauree, un mandato da europarlamentare, una carriera da avvocato e da docente universitario. La vita di Pietro Mennea riassume bene la definizione di sport come “mezzo prezioso di formazione umana”, offerta da Papa Leone XIV durante la messa a conclusione del pellegrinaggio giubilare degli sportivi. Un Giubileo dello Sport che ha raccolto idealmente il testimone dall’indimenticato campione, non a caso tedoforo all’Anno Santo straordinario degli sportivi nel 1984 e al Grande Giubileo del 2000 con San Giovanni Paolo II. La Speranza – parola che accompagna l’anno giubilare – di Pietro Mennea è stata lo sport. Una ricerca del risultato da percorrere unicamente in un cammino ricco di valori. È questo uno dei tanti insegnamenti della Freccia del Sud, oggi portati avanti dalla Fondazione a lui intitolata e guidata da Manuela Olivieri Mennea, moglie del leggendario sprinter scomparso nel 2013. È lei, ai microfoni di Juvenilia, a raccontare il Pietro campione e il Pietro studioso.
Sport e speranza, due parole che nella vita di suo marito sono sempre state vicine.
Pietro veniva da una famiglia dove lo sport non esisteva. Lui lo ha sempre detto: lo sport è stato una chance di riscatto, l’occasione per uscire da una realtà che gli stava stretta. Si allenava come nessun altro, ma gli piaceva farlo, nessuno lo costringeva.
Andrew Howe, Fabrizio Donato, Andy Diaz e Zaynab Dosso durante l’evento di Athletica Vaticana un mese fa hanno ricordato la figura di Mennea. Quanto fa piacere che l’esempio di Pietro rimanga una bussola per gli atleti di ieri e oggi?
Fa molto piacere. Emerge l’importanza dello sport come portatore di valori e Pietro è stato l’esempio di quanto lo sport avesse inciso nella sua vita. Mi vengono in mente le varie volte in cui mio marito incontrava qualcuno che gli faceva i complimenti. La risposta era sempre: ‘Vuol dire che qualcosa di buono l’ho fatto e questo è ciò che mi ripaga di tutto’. E vale ancora oggi, anche nelle scuole. Un’insegnante mi ha rivelato che in una scuola i ragazzi hanno svolto un saggio prendendo ad esempio la vita di Pietro. Questo è molto significativo.
Papa Leone XIV ha detto che “i campioni non sono macchine infallibili, ma uomini e donne che quando cadono trovano il coraggio di rialzarsi”. Quanto è importante parlare nelle scuole dell’esempio di umiltà di Pietro?
I giovani oggi sono fragilissimi e si demoralizzano perché c’è una continua influenza di stimoli esterni che prima non c’erano. Vogliamo far capire loro che se ci si impegna, si può arrivare dove si vuole andare e che l’importante non è apparire, ma essere. È bello pensare a come Pietro, con l’impegno e il sacrificio, solamente sulle sue gambe, sia riuscito a raggiungere obiettivi grandissimi.
Nella sua carriera che ruolo ha avuto lo studio?
La cultura rende liberi. Pietro ha studiato tantissimo e riguardando le sue interviste di quando era appena ventenne, dopo Monaco 1972, rivedo un ragazzo che ancora si doveva fare. Al contrario il Pietro più grande e maturo, ma soprattutto quello che aveva passato tanto tempo sui libri, era più sicuro di sé, pronto a confrontarsi con la vita. E questo è il frutto della cultura e della lettura.
È vero che avete dovuto usare un appartamento solo per i libri di Pietro?
Sì (ride, ndr). C’è stato un momento in cui spostavo le tende e trovavo cumuli di libri. Ad un certo punto, non sapendo più dove metterli, abbiamo deciso di sistemarli in un appartamento che avevamo comprato appositamente vicino casa. I suoi preferiti erano quelli di storia, soprattutto quella romana e greca.
All’epoca come riusciva a combinare la vita da atleta a quella da studente?
Per lui era un piacere. Quando finiva di allenarsi, era da solo e spesso lo prendevo in giro dicendogli che aveva fatto la vita da frate trappista. Oggi si aiutano gli atleti con la dual career, ma in passato questa possibilità non c’era. Anzi, c’era l’idea che lo studio fosse una fonte di distrazione dagli allenamenti, che deconcentrasse l’atleta. Pietro quindi studiava da solo e di nascosto: diceva in giro che sarebbe andato a Barletta a trovare i genitori e invece si ritirava a studiare per preparare gli esami. Oggi sento molti sportivi dire che lo studio aiuta ad allenarsi meglio, perché offre un ordine.
Aveva un rimpianto sul suo percorso scolastico?
Non aver fatto il liceo classico. Per lui è stato un dispiacere. Spesso mi diceva ‘Tu non puoi capire, hai fatto il classico’. Per questo motivo la sua ultima laurea è stata in Lettere.
Qual era il suo rapporto con la fede?
Era un credente perché per lui era importante credere che ci fosse una guida, capace di tenerci nella giusta direzione nel percorso della vita. Questo si univa alla sua volontà di aiutare il prossimo attraverso un’etica e una morale che viene da qualcosa di più grande. Che senso ha la vita se non si tende la mano agli altri? La serenità delle persone porta anche ad una società migliore e bisogna sempre cercare di aiutare chi sta meno bene, non solo in termini economici, ma anche sotto l’aspetto psicologico. Pietro lo aveva capito.
È questo il principio che dopotutto ha ispirato la nascita della Fondazione. Quali sono i prossimi obiettivi?
Mi auguro di riuscire a realizzare il museo nell’area dello Stadio dei Marmi perché era un sogno di Pietro. Lui diceva che dalle cose buone possono nascere cose migliori. È un progetto formativo e non celebrativo, rivolto ai ragazzi. Mi affido ad una frase di Pietro: c’è chi ha fatto un’Olimpiade e ha vinto svariate medaglie d’oro, io ne ho fatte cinque per vincerne una. Quindi siamo abituati ad andare con calma, ma alla fine arriviamo dove dobbiamo arrivare.
Foto Sergio Del Grande (Mondadori Publishers)