Fabrizio, Il Carcere E La Rinascita Con Lo Sport

“Con lo sport e la religione ho ritrovato la vita”. Fabrizio Maiello negli anni ha custodito una storia incredibile, che nel tempo ha imparato a condividere con il mondo. Una storia che dimostra la forza di un uomo capace di riprendere in mano la propria esistenza grazie alla passione per il calcio, capace di afferrarlo e tirarlo fuori dal buio. Viaggio verso l’oblio e il ritorno, nel segno della solidarietà.
La vita di Fabrizio è un romanzo degno di essere narrato: “Ho fatto tanti anni nei vecchi manicomi criminali. Quando ero giovane, giocavo a calcio ed ero bravo, ero una mezzala. Quello di diventare un giocatore di calcio è sempre stato il mio sogno: a scuola non andava granché, puntavo tutto sul pallone. Giocavo nelle giovanili del Milan, che mi aveva prestato al Monza. A 18 anni, però, ho avuto un brutto infortunio al crociato del ginocchio. Capii che non avrei potuto più giocare come volevo. A quel punto, ho perso la testa, mi si è spenta la luce. Ho iniziato, con alcuni miei amici della Comasina (quartiere periferico di Milano) con le rapine e i furti, ho usato droghe e ho fatto degli errori”.

 

LA GALERA

Quando un amore ti spezza il cuore, tutto cambia: “Il calcio – dice Fabrizio – fino a quel punto mi aveva salvato la vita, ma da lì in poi ho iniziato a odiarlo: solo guardare qualcuno giocare, mi faceva venire la nausea. Sono finito nel carcere di Monza, in linea d’aria a qualche metro dal campo su cui mi allenavo: quando giocavo, non provavo troppa compassione per le persone che finivano lì dentro. ‘Se hanno sbagliato, devono pagare’, dicevo. E invece anche io sono finito lì. Non è stato un bel periodo: tanto per dirne una, ero sul punto di rapire Gianfranco Zola…”.

L’IDEA DEL RAPIMENTO

Abbiamo capito bene? “Eh sì – racconta -, nel 1994, ero latitante, e con il mio gruppo avevamo in mente di sequestrare Zola e chiedere il riscatto a Callisto Tanzi, allora presidente del Parma. L’idea era di un sequestro lampo, di 24-48 ore. Lo pedinavamo fuori dagli allenamenti, lo seguivamo in autostrada. A un certo punto, si è fermato al distributore, e mi sono accorto che con lui c’era la moglie. Lui era sorridente, ci ha anche salutati. Allora, anche da tifoso del Napoli, mi sono detto: ‘ma che cosa sto facendo?’. Allora abbiamo lasciato stare, tanto che poi abbiamo scattato delle foto in sua compagnia”.

La vita nel carcere diventa sfumata, quasi velata da un senso di impotenza, fra tensioni e paure, ma anche di legami indissolubili: “Ho avuto a che fare con tanti criminali. Ma ho anche ricordi diversi: Giovanni, per esempio, era un signore sfortunato, che aveva vissuto tutta la sua vita nei manicomi civili. Per una spinta a un signore, poi morto nella caduta, è stato trasferito nel carcere criminale, a tre celle di distanza dalla mia. Gli altri lo maltrattavano, gli tiravano addosso le uova. Era malato, gli avevano dato tre mesi di vita. Un giorno ho chiesto alle guardie di poterlo prendere in cella con me, per accudirlo. E alla fine così ho fatto. Giovanni è sopravvissuto, ed è anche uscito dal manicomio criminale, continuando la sua vita”.

IL BUIO

Poi, all’improvviso, il ritorno: “Ogni anno, all’interno della struttura, veniva organizzata una corsa podistica per i detenuti. Ho accettato l’invito della direttrice, a patto di percorrere il tragitto della corsa palleggiando. Via via, ho conquistato record sempre più particolari e da Guinness da Primati (palleggiando a marcia indietro, tenendo la palla un’ora e mezza in equilibrio ferma sulla testa). Nel 2002, ho ricevuto un permesso premio, e da lì in poi ho iniziato a palleggiare anche in mezzo alla gente, fuori dal manicomio criminale”. Il tutto con l’aiuto costante della religione, una costante, nel bene e nel male, nella vita di un ragazzo che, con la forza della passione, ha ritrovato se stesso: “La fede rappresenta tantissimo per me. Anche quando commettevo i miei errori, pregavo sempre di non far del male a qualcuno, ho ancora il santino dell’epoca in tasca.
Oggi parlo e palleggio anche per i ragazzi all’interno degli oratori. Nel 2002, quando sono uscito in permesso, sono stato ospite dell’oratorio di don Chiari, che purtroppo ora non c’è più, e ho palleggiato davanti a 400 bambini. Lui scrisse una lettera al magistrato, ringraziandolo per avermi permesso di recarmi lì. Al di là di tutto, è lo sport ad avermi dato quei valori di lealtà e rispetto per rinascere e riprendere in mano la mia vita. Io ho perso tutto, quando ho perso lo sport. Ma, quando l’ho ritrovato, con esso ho riabbracciato anche la mia esistenza”.

LA VITA

Ora quella di Fabrizio è colma di iniziative, record da battere ed eventi. Compreso quello in onore di Ciro Esposito, morto il 25 giugno del 2014, dopo essere stato ferito poco prima dell’inizio della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina: “Sono felicissimo di poter dare il mio contributo al ricordo di Ciro. Ho conosciuto Antonella Leardi, la madre, nel corso della manifestazione “Un calcio al Bullismo” nel gennaio di quest’anno. La accompagnerò nel carcere minorile di Airola (in provincia di Benevento) e poi ricorderemo Ciro in un quadrangolare a Scampia, perché lo sport è vita”.

Marco Macca